La Costardella dello Stretto di Messina

Pesce beloniforme (scombresoxaurus) della famiglia Scombresocidi caratterizzato da corpo affusolato e allungato da un becco. Lungo oltre 30 cm, presenta colorazione verde con riflessi blu sul dorso, mentre il ventre è argenteo. Si nutre esclusivamente di platon. E’ oggetto di pesca speciale per le sue carni pregiate: viene anche attirato dalle luci delle lampare e nello Stretto di Messina era catturato frequentemente con rete di circuizione con l’ausilio di una barca principale (raustina) e di una più piccola (luntru, usata come punto di partenza di arrivo nella cicuizione); un’altra barca (bacca ‘i stagghiu) veniva usata per tagliare la strada al banco e da cui venivano lanciati sassi bianchi per impaurire e fermare la corsa dei pesci.
Nello Stretto di Messina le uova di questa specie si pescano nei mesi da novembre a gennaio e nel golfo di Napoli dal mese di ottobre a dicembre. Nel gennaio-marzo già si trovano stadi giovanili lunghi 12-25 mm. In questi stadi non si nota ancora la presenza del becco che incomincia a svilupparsi solo quando hanno raggiunto i 40 mm.

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Anche tra i pesci esistono distinzioni, privilegi, gerarchie. La costardella, per esempio, se le si dovesse riconoscere uno status sociale, certamente finirebbe ad ingrossare la massa proletaria. Primo, perchè costa relativamente poco. Secondo, perchè la sua carne, saporitissima e fragrante, presenta al gusto qualcosina che non si addice del tutto ai palati delicati, quelli che puntano, sempre e dovunque, al pesce da taglio, al pesce grosso.
La costardella è piccola, fa parte dell’azzurro, è guizzante. L’aspetto richiama in piccolo, anzi in minimo, il pesce spada. Anch’essa si allunga e si assottiglia in punta di siluro. La qualità più prelibata è naturalmente quella dello Stretto. Al riguardo c’è da spendere una parola. Tutti i pesci che frequentano lo Stretto, a detta di chi se ne intende, pescatori e pescivendoli, sono di qualità diversa, superiore. Il pesce spada è inarrivabile perchè le acque, fatte sempre nuove dalle fortissime correnti, lo lavorano ai fianchi, lo levigano, lo tengono in strenuo esercizio: nulla a che vedere con quei mari caldi e stagnanti dove il pesce si dà a dolce vita e il risultato è carne flaccida, che sa di nulla. I pesci dello Stretto sono agili, scattanti, sodi come atleti. La costardella è tra questi.
Nell’immediato dopoguerra, quando le risorse dei ceti popolari non erano floride (quando mai lo sono state?), la costardella, d’estate, era la manna che veniva dal mare. E quando la pesca era particolarmente abbondante, il vocio delle strade non aveva nulla di petulante, era festa, un dilagare di contentezza. I pescivendoli non usano più bilance e stadere, buttano via tutto: gli si dà un piatto, e loro te lo ricolmano di pesce. Cento lire a piatto.
La costardella è duttile. Puoi trattarla in mille modi. Ma, com’è in ogni cosa, anch’essa, “ha la sua morte”. E la morte sua è la frittura. Frittura, si capisce, d’olio d’oliva se intendi esaltarne il gusto, rallegrarti del suo aroma: in questo è selettiva ed esigente, e non ammette altri oli, aborre i futili oli di semi.
Qualche volta si affaccia, un po’ timida in verità, la domanda se nella evangelica moltiplicazione dei pani e dei pesci ci fosse un posto per l’umile costardella. Piace immaginare che un posto per lei doveva pur esserci. E sfamare cinquemila persone anche a costardelle doveva, potrebbe essere cosa non da poco, un tripudio per tutti.

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