Cagnaccio di San Pietro

di Davide Pugnana

Quando anni fa, per la prima volta, mi sono imbattuto nelle sue opere, pubblicate su una rivista specializzata, mi ha subito conquistato l’affascinante combinazione dei colori, le forme tese e nitide, le lievi deformazioni ottiche, le atmosfere cariche di pathos, gli interni spogli, o disseminati di pochi oggetti, con i corpi restituiti in iscorcio, quasi scivolosi, con le carni magre dei modelli che sembravano depositare un velo tenerissimo sulle ossa affioranti. Mi incuriosì la sua firma: Cagnaccio di San Pietro, con quel richiamo in sé di qualcosa di epico, di ispido e, allo stesso tempo, di monumentale ed ironico. Si trattava del nome d’arte di Natale Bentivoglio Scarpa (Desenzano sul c, 1897 – Venezia, 1946), sconosciuto ai più fino agli anni ’70, quando la gallerista milanese Claudia Gian Ferrari si interessa al suo talento, rimasto ai margini dell’attenzione degli addetti ai lavori, che lo avevano fino ad allora considerato un artista di secondo piano. Oggi, come allora, duro fatica a relegare Cagnaccio in una posizione marginale del paesaggio artistico del Novecento. Dovremo fare così anche con Annigoni o con Donghi, eppure no, ci ribelliamo, riconosciamo in loro dei maestri della pittura italiana del Novecento. Ma la formazione del canone lascia fuori dai suoi confini molti nomi, allungando su di essi l’ombra di una colpa non immediatamente percepibile. Perché considerare un pittore come Cagnaccio di San Pietro un artista di second’ordine? Su quali basi espressive condannare la sua visione e il suo stile? C’è forse qualcosa che non va nella sua pittura? Sarà, forse, così per una certa frangia di denigratori del figurativo italiano, ma non è possibile di fronte ad una seria verifica della sua tenuta artistica.

Da dove proviene questo nom de guerre? Natale “diventò” Cagnaccio attorno al 1916 per una collettiva presso il Salone Bonvecchiati; mentre il genitivo di appartenenza “di San Pietro” venne aggiunto a partire dal 1925, ma il nome per intero è ben visibile nelle tele più celebrate: Cagnaccio di San Pietro. Perché questo nome? Pare si sia trattato di un omaggio al cane dei nonni paterni; ma, in realtà, il motivo è più profondo. Certamente “di San Pietro” volle celebrare quel senso di appartenenza all’anima popolare veneziana che sentì di voler rappresentare in tutta la sua carriera e Cagnaccio fu probabilmente un termine scelto per definire uno spirito, allo stesso tempo, ribelle e tradizionalista, anarchicamente sfuggente e rognoso. Fin da bambino, portato dai genitori a San Pietro in Volta, nell’isola veneziana di Pellestrina, visse libero tra reti e barche, odore di laguna, espressioni dialettali, sapori e tradizioni popolari, disegnando con una disinvoltura sorprendente. Quando Ettore Tito (prestigioso insegnante della locale Accademia di Belle Arti) vide un ritratto realizzato dal ragazzo invitò i genitori ad iscriverlo all’Accademia, nella quale Natalino compì, a 16 anni, un solo anno di studi, per poi uscirne e mantenne con Tito un rapporto di cordiale collaborazione e amicizia al di fuori degli ambienti scolastici. Era un enfant prodige, un cane randagio, uno spirito libero capace di sperimentare tecniche e soluzioni pittoriche con una perizia indiscutibile e fa sorridere il fatto che, molti anni dopo, proprio lui sarà uno dei sostenitori di una formazione dei giovani talenti secondo una disciplina tradizionale. Ma, non è una contraddizione: Cagnaccio fu contemporaneamente anticonformista, padre e marito devoto, umile artigiano e intellettuale dalla morale ferrea, che cercava di carpire nella realtà quotidiana qualsiasi segnale lo inducesse a disegnare, a “costruire” un brandello di realtà.

Tutta la sua pittura risulta maniacalmente edificata, particolare dopo particolare, in una sorta di rigoroso procedimento per passaggi: prima uno schizzo, poi l’analisi di ogni singolo elemento in volti, corpi, arti, tronchi, che venivano isolati e definiti pezzo per pezzo e per i soggetti l’attenzione si era concentrata su quell’affascinante mondo popolare che Venezia offriva a mani basse: lo attiravano le donne di strada, i personaggi del mare, i mercati, le operaie. Dopo qualche breve esperienza di genere futurista, l’artista veneziano approdò alla “sua” pittura, vicina ad un realismo del tutto originale e il 1928 fu l’anno cruciale nella carriera di Cagnaccio: l’anno della sua trilogia allegorica sulla dissolutezza dei costumi. Alla sedicesima Biennale di Venezia espone “Dopo l’orgia” (180×140 cm), una tela raffigurante tre donne (la stessa modella che posa in una prospettiva a triangolo) accasciate dopo essersi concesse ai voleri di un uomo e tra gli oggetti sparsi sceglie di dipingere una bombetta e dei gemelli con il simbolo della cimice fascista. Il quadro crea uno scandalo di enormi proporzioni e l’amico Luigi Linassi implora Mima, di convincere il marito a cancellare quel simbolo; Cagnaccio ubbidisce, ma le reazioni contro di lui erano già scoppiate. I suoi quadri emergevano per l’eleganza e la precisione dei tratti in un “naturalismo spettrale” in cui il realismo delle figure si contrapponeva ad uno sfondo spesso indefinito. La critica ha classificato la sua pittura come un esempio di realismo magico (assieme a pittori come Antonio Donghi e Felice Casorati). Cagnaccio crea forme dalla bellezza quasi araldica che risaltano come gioielli sullo sfondo della tela. Anche qui non c’è retorica. Sono le cose stesse a parlare, anzi a tacere, e la loro oggettività così nitida diventa abbagliante e sfuggente, come un miraggio. Diventa, appunto, metafisica. Intorno al 1920 definisce il suo stile più caratteristico: una forma compatta e precisa che ha contatti, oltre che con la Nuova Oggettività, col «Novecento», al quale però non aderisce mai. Intanto comincia a farsi conoscere in varie mostre e nel 1934 è presente alla Biennale di Venezia, mentre nel 1935 è invitato alla Quadriennale di Roma.

Il destino gli sorrise proprio nel 1934: tutta l’Italia seguiva con attenzione Mussolini che accompagnava Hitler alla Biennale veneziana; quando il tedesco, incantato di fronte al “Randagio” (1932) di Cagnaccio, fece cenno di volerlo acquistare, gli fu detto che non si poteva, trattandosi dell’opera ipotecata di un artista sommerso dai debiti. Forse perché Cagnaccio è stato uno dei nostri pittori più vicini alle asprezze, ma anche al segno preciso, del movimento tedesco. E proprio quella sua durezza metallica, che fa pensare al «noi non potemmo essere gentili» di Brecht, gli ha permesso di superare certi patetismi in cui avrebbe potuto cadere. Hitler se ne stupì e insorse dicendo che in Germania questo non sarebbe mai capitato. Mussolini, per non essere da meno, condonò quei debiti, permettendone l’acquisto, mentre Cagnaccio gongolava, immaginando le facce dei suoi detrattori. In pochi giorni rifece il quadro (a memoria) con le stesse misure (56×42 cm) senza dimenticare che un dittatore sanguinario aveva colto l’elegante fascino di un giovane mendicante, raccontando così al mondo che la bellezza, al di là di un qualsiasi possesso, è solo nel cuore di chi sa immaginarla.


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