E’ piccola, ma preziosa e da non perdere, la mostra «Cagnaccio di San Pietro. Il richiamo della Nuova Oggettività», che Ca’ Pesaro dedica a Natalino Bentivoglio Scarpa, noto (si fa per dire) col nome appunto di Cagnaccio. Ben calibrata è la scelta delle opere: una ventina, senza ripetizioni né concessioni a certi esiti minori, soprattutto senili. Curata da Dario Biagi con la collaborazione di Elisabetta Barisoni, raccolta in un’unica sala del palazzo veneziano, la rassegna dà l’idea, anzi il sapore, del mondo poetico dell’artista e affianca opportunamente la grande mostra della Nuova Oggettività.

Già, perché Cagnaccio è stato uno dei nostri pittori più vicini alle asprezze, ma anche al segno preciso, del movimento tedesco. E proprio quella sua durezza metallica, che fa pensare al «noi non potemmo essere gentili» di Brecht, gli ha permesso di superare certi patetismi in cui avrebbe potuto cadere. Guardiamo, per esempio, Primo denaro, 1928, una delle opere più significative della mostra. Il denaro è quello del meretricio e il quadro dovrebbe raccontare la triste storia, un po’ alla Dostojewskij, un po’ da sceneggiata napoletana, di una sventurata costretta a vendersi per aiutare la famiglia, nonché il suo ribrezzo per il facile guadagno. Niente di tutto questo in Cagnaccio.

Le banconote sono dipinte così perfettamente che sembrano una natura morta, un quadro dentro il quadro. E la donna, ripresa dall’alto col corpo muscoloso e slogato, ricorda, se si esclude il volto, certe sculture di Moore o di Arp. Astratto, allora, l’iperrealista Cagnaccio? Ma no, solo che gli estremi si toccano e il suo disegno fotografico appare paradossalmente irreale. A tutto si pensa, guardando Primo denaro, tranne a quello che indica il titolo.

Le stesse considerazioni valgono per le sue nature morte: quei vasi di fiordalisi e rose, o quelle composizioni con mele, uova, peperoni e cipolle, dipinti tra la fine degli anni trenta e gli inizi dei quaranta, che chiudono idealmente la mostra. Cagnaccio crea forme dalla bellezza quasi araldica che risaltano come gioielli sullo sfondo della tela. Anche qui non c’è retorica. Sono le cose stesse a parlare, anzi a tacere, e la loro oggettività così nitida diventa abbagliante e sfuggente, come un miraggio. Diventa, appunto, metafisica.

E ancora. Una delle sue opere più indimenticabili è L’alzana (1926), in cui due giovani trascinano da soli un gigantesco barcone galleggiante. Quel loro spaventoso sforzo, da animali più che da uomini, è così realistico da apparire assurdo e diventa la metafora delle nostre fatiche, delle nostre illusioni. Il realismo di Cagnaccio, del resto, confina sempre con l’incubo. Così i suoi bambini, con l’espressione incattivita o segnata da una malizia ottusa (si veda l’atroce Bambina con la palla), sono il contrario dell’infanzia convenzionale.

Sono mostri e vittime insieme. Forse per questo, come accade per tutti i quadri di Cagnaccio, ci sembra di non essere noi a guardarli. Sono loro che guardano noi, e ci giudicano. Cagnaccio di San Pietro era nato a Desenzano nel 1897. Aveva studiato all’Accademia di Venezia con Ettore Tito, esponente allora famoso di un paesaggismo tradizionale, ma presto si era avvicinato alle avanguardie, partecipando negli anni Dieci alle mostre di Ca’ Pesaro con Gino Rossi, Garbari, Casorati. Intorno al 1920 definisce il suo stile più caratteristico: una forma compatta e precisa che ha contatti, oltre che con la Nuova Oggettività, col «Novecento», al quale però non aderisce mai. Intanto comincia a farsi conoscere in varie mostre e nel 1934 è presente alla Biennale di Venezia, mentre nel 1935 è invitato alla Quadriennale di Roma.

Sembra l’inizio di un’affermazione, ma quasi nello stesso periodo la sua salute è minata da un male incurabile che lo consumerà progressivamente e lo porterà alla morte a quarantanove anni. È un male di cui Cagnaccio è ben consapevole e che lo spinge a staccarsi dalla vita sociale e artistica, anche se continua a dipingere anche negli anni di guerra e spesso si ispira alla realtà dell’ospedale: malati, dottori, infermiere, medicine. Dal 1940, comunque, mosso da uno slancio mistico, aggiunge alla sua firma la sigla S.D.G («Soli Dei Gloria», a gloria di Dio solo).

Ma, a proposito: da dove proveniva il suo nome? San Pietro stava per San Pietro in Volta, il paese della laguna veneta da cui venivano i suoi genitori, mentre Cagnaccio era il soprannome della sua famiglia, perché suo nonno aveva un cane che faceva paura a tutti. Varagnolo, un critico dell’epoca, ebbe a commentare: «Cagnaccio di San Pietro per nome di battaglia s’è messo insieme una bestia e un apostolo!». Un ossimoro, insomma, una contraddizione in termini. Come felicemente contraddittoria, col suo realismo irreale, è tutta la sua pittura.

Anche la Milanesiana riscopre, complice gli Sgarbi (lei ideatrice della kermesse, lui curatore della mostra «Preghiera laica») Cagnaccio, mettendo in dialogo al Museo diocesano di Milano, dal 29 giugno al 19 luglio il suo Rosario con il trittico Memento Mori di Ferroni.

CAGNACCIO DI SAN PIETRO. IL RICHIAMO DELLA NUOVA OGGETTIVITA’

VENEZIA. CA’ PESARO

FINO AL 27 SETTEMBRE

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