16 Maggio 2018

Cagnaccio di San Pietro, Rosario

Cagnaccio di San Pietro, Rosario
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Il suo nome vero era Natalino Bentivoglio Scarpa. Era nato a Desenzano nel 1897. Da ribelle e anticonformista qual era, prese come nome d’arte quello di Cagnaccio, a cui poi aggiunse anche il nome del luogo a cui era più legato: il borgo di San Pietro in Volta, nell’isola di Pellestrina, la striscia di terra che chiude la laguna di Venezia.

Cagnaccio di San Pietro, dunque. Fu un pittore molto attivo e anche di successo nell’Italia degli anni ’30. Poi finì nel dimenticatoio sinché non lo riscoprì Giovanni Testori. Ed è sull’onda lunga di quella rivalutazione che oggi si riscopre questo quadro che è stato dipinto intorno al 1932, esposto alla Biennale nel 1934 e ora riaffiorato perché esposto, come acquisizione recente, nella mostra della Collezione Cavallini-Sgarbi a Ferrara.

Cagnaccio di San Pietro, un rosario per il mese mariano

Il titolo è il solo che si può dare a questa tela, così semplice e così commossa: “Rosario”.

È un’immagine da tenere davanti in questo maggio mariano. Si vede una donna vestita di nero con la corona in mano, che usa una sedia impagliata come inginocchiatoio.

Dietro di lei quella che con ogni probabilità è sua figlia, mentre ai suoi lati ci sono i due nipoti. Sono sulla riva e danno le spalle al mare.

È facile immaginare che stiano pregando perché il figlio-marito-padre ritorni: qualcosa deve essere accaduto che li tiene imploranti e inquieti. È un quadro “nudo”, dove tutto converge a restituire l’intensità della preghiera dei quattro protagonisti.

Lo sguardo e la preghiera

La rappresentazione è realistica, ma Cagnaccio aggiunge un altro fattore a questo realismo quasi sociologico con cui rappresenta i suoi personaggi.

È una tensione che genera un’immagine indimenticabile nella sua essenzialità. Un’immagine dove nessun elemento interferisce rispetto alla linea di forza di quegli sguardi tesi che guardano verso l’alto avendo davanti il Lui o il Lei a cui chiedere la grazia.  

Non vediamo quello che loro vedono. Ma non si può dubitare che quegli occhi sgranati restituiscano l’evidenza di una presenza che sta davanti a loro. Una presenza che definisce il loro essere, a cui la loro vita aderisce.

A quegli sguardi si aggiunge lo sguardo di Cagnaccio, che con la sua arte piena di poesia non prevarica, non carica di retorica, ma fotografa quella condizione umana. E in qualche modo, attraverso la pittura, ne diventa partecipe.

 

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